Benefit per le/i prigionier*: solidali con alcun*, oppressori con altr*

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…le ossa, il grasso, i muscoli e i tessuti di esseri che un tempo sono stati vivi e che sono stati massacrati per assicurarsi parti dei loro corpi. Questa scena vi travolge e, di colpo, scoppiate a piangere. Il dolore, la tristezza, lo shock vi sopraffanno, magari anche soltanto per pochi istanti. E, per un attimo, siete in lutto, siete in lutto per tutti gli animali senza nome che stanno di fronte a voi.
James Stanescu, Questione di specie

 

La catena alimentare, la legge della natura, l’oppressione del più forte verso il più debole, la disuguaglianza, il dominio: il nostro è un mondo basato sulla prevaricazione che noi non accettiamo.

C’è chi dona la propria vita per un mondo liberato: tant* sono le/i compagn* che ci hanno lasciato e che ci lasceranno, uccis* o schiacciat* da una realtà che ci opprime ogni giorno. Tant* altr*, sacrificando la propria vita, finiscono in carcere: in gabbia. Dedichiamo la nostra esistenza a combattere le ingiustizie messe in atto dai più forti e spesso ci sentiamo impotenti di fronte a tanta violenza. Mentre siamo impegnati nelle nostre lotte, dobbiamo fare i conti anche con la repressione, facendo sentire meno soli le/i prigionier* con lettere, presidi sotto le carceri, iniziative e benefit per pagare le spese legali. Spesso, però, in questi benefit si serve carne, probabilmente perché ci si dimentica, o forse, più superficialmente, non si pensa che il contenuto di questo o quel piatto prima era un animale, un essere vivo e senziente come noi e come noi pieno di aspettative di vita, pensieri, felicità, tristezze e desideri. Istinto di libertà.

Come si può lottare per la libertà sfruttando la schiavitù di altri esseri che, come noi, desiderano solo essere liberi?

Finiamo in carcere perché non vogliamo un mondo di oppressione, senza renderci conto che, spesso, siamo noi gli oppressori. Accettare questo dato di fatto è il primo passo verso una consapevolezza generale che può permettere di realizzare un cambiamento, il cambiamento: quello verso la liberazione totale. La società in cui viviamo rende impossibile una vera coerenza, ma ciò non può e non deve sminuire i piccoli e i grandi passi che facciamo, possiamo e dobbiamo fare, se davvero vogliamo che la liberazione totale non sia un semplice slogan, ma diventi una realtà.

I nostri spazi, liberati dal mondo e dalla società capitalistica, fino a che punto sono veramente liberi?

La lotta non è, e non deve essere, rivolta solo contro l’esterno. Deve essere rivolta anche al nostro interno, contro le pratiche di abuso e di potere che spesso, più o meno inconsciamente, reiteriamo a nostra volta nei confronti di noi stess*, delle/dei compagn* e negli spazi liberati. Quella contro noi stess*, contro le strutture di dominio che ci sono state inculcate dalla cultura e dalla società, è forse la lotta più difficile da combattere. Ci impegniamo con tutte le forze per cambiare modo di vivere, per adottare un linguaggio, per intrecciare relazioni dove non ci sia posto per idee razziste e fasciste, machiste e maschiliste, omofobe e capitaliste. Siamo empatici con i deboli e con chi viene sopraffatto, perché apparteniamo tutti a una grande categoria: quella delle/degli oppress*, delle/degli sfruttat*.

Il rifiuto di collocarsi e collocare altr* in una scala gerarchica non può essere la scelta individuale di un singolo. Se così fosse, ne conseguirebbe che potremmo accettare e perfino rispettare ogni tipo di comportamento fascista. È una scelta che coinvolge necessariamente le/gli altr*, una scelta politica. Decidere di non cucinare e mangiare cibo ottenuto dallo sfruttamento e dalla morte degli animali è prima di tutto, infatti, una scelta politica, un’azione diretta e concreta contro ogni dominio. In quei piatti ci sono violenza e sfruttamento, la stessa violenza e lo stesso sfruttamento che ci consumano ogni giorno, sottraendoci tempo, vita e salute, trasformandoci in prodotti selezionabili nei banchi di quel supermercato chiamato capitalismo.

Rifiutarsi di consumare qualsiasi prodotto derivato dalla schiavitù e dalla prigionia di altri individui, umani e non umani, è l’unico modo per sottrarsi alla struttura oppressiva di ogni gerarchia, per eliminare definitivamente ogni forma di sfruttamento e di dominio dalle nostre pratiche politiche. Distruggiamo tutte le prigioni, non solo quelle degli animali umani.

Perché fino a quando esisteranno gabbie e sbarre, nessun* potrà mai essere liber*.

Questa lettera è stata scritta circa un anno fa ed è circolata via mail e all’interno di alcuni spazi.
Non è certo cambiato niente, la situazione rimane la medesima, percui vale la pena pubblicarla anche su questo blog.

Alle urne (funerarie)

Su referendum e disastri ambientali.

In concomitanza con il referendum sulle trivelle, inscritto nel panem et circenses di quanti si illudono ancora che la democrazia abbia alcun valore, una macchia nera si è riversata nel letto del torrente Polcevera1, a Genova, e ora sta raggiungendo il mare, soffocando ogni forma di vita. Che si tratti di idrocarburi, come nel caso delle trivelle, o di petrolio greggio, come nel caso di Cornigliano a Genova, quella che potrebbe sembrare una semplice coincidenza non è altro che il portato inequivocabile di un “magnifico” progresso destinato a implodere, ad autodistruggersi e a decretare l’annientamento del vivente.

the-salt-of-the-earth-2In Liguria sono le spiagge a recitare il memento mori dell’ecocidio: il mare, a seconda delle correnti e delle maree, vomita nerume sulla sabbia, rigurgitando i veleni chimici di fabbriche come la Stoppani2, chiusa nel 2003 ma che continua a inquinare il sottosuolo, o le scorie del catastrofico incidente della petroliera Haven, che nell’ormai lontano 1991 esplose travolgendo in un inferno di fuoco i marittimi a bordo e buona parte della flora e della fauna circostante3.

Incidenti del genere non sono l’eccezione, ma la norma consolidata e accettata, con l’adagio frusto dei “danni collaterali”, di un sistema che ha come obiettivo primario lo sfruttamento indiscriminato e acefalo della terra e di ogni vita che respira, in nome del profitto di pochi padroni. Se chi tace è sicuramente complice, chi cede all’illusione di imporre la propria scelta in una cabina elettorale non è soltanto, oggi più che mai, un* pover* ingenu*, ma un* collus* con lo stesso sistema che pretende risibilmente di scalzare con un “Sì” e con un “No”.

Il passivismo qualunquista e pseudodemocratico si riempie la bocca di slogan propagandistici che invocano il voto “per salvare il mare”. Sono queste le semplicionerie che ci strappano un sorriso sarcastico, pratiche che non possono che ricordare il delizioso premio ammannito dal padrone al termine di un esercizio di addestramento.

Se vogliamo distruggere il sistema che ci distrugge, dobbiamo necessariamente prendere coscienza di noi stessi e delle azioni con le quali possiamo incidere sul reale. Il mare non verrà certo salvato delegando allo stato e, di conseguenza, ai padroni a cui sono soggiogati tutti i governi. Andate pure a votare, scendete in piazza a manifestare insieme alla vostra associazione green del cuore, con la beata convinzione di rivoluzionare il mondo perpetuando le stesse pratiche che lo condannano alla rovina.

Il mare muore ogni giorno non soltanto a causa delle trivelle, ma soprattutto per via delle forme socialmente accettate con cui viene sfruttato l’ecosistema marino, prima tra tutte la pesca. Risplende lampante una contraddizione: gli schiavi che si pensano cittadini provano scrupoli se l’ecosistema viene minacciato dalle infrastrutture di un sistema economico-energetico incompatibile, ma non si pongono il benché minimo problema se l’ecosistema muore per finire nella propria pancia. E se mangiare petrolio è l’amara nemesi di chi mangia sofferenza, non si può negare il fatto che sono sempre i più deboli a rimetterci: i pesci, prima; i meno abbienti, poi, perché non possono permettersi cibo sano, destinato solo ai ricchi.

L’errore fondamentale è che ogni questione politico-ecologica, dai “No” alle grandi opere ai referendum per la salvaguardia (sic!) dell’ambiente, viene sempre inquadrata in un’ottica esclusivamente antropocentrica. La devastazione del territorio, le catastrofi naturali o l’ennesima minaccia alla sopravvivenza di una specie animale (in genere, una specie addomesticata; in genere, una specie arbitrariamente ritenuta degna di vivere) vengono sempre affrontate come se la posta in gioco riguardasse solo l’umano, come se contassero solo le esigenze, gli egoismi e l’istinto di prevaricazione degli animali umani. Mai, o raramente, ci si immedesima negli altri animali, e quindi nella terra in toto, che occupano l’ultimo gradino nella scala gerarchica del mondo, che si pensano “creati” e messi a nostra disposizione, come detta il più bieco antropocentrismo di chiara impronta cattolica, come strumenti a uso e consumo della nostra specie.

Se vogliamo davvero la distruzione di questo sistema, dobbiamo tutti guardare al di là del nostro orticello, capire che il problema non consiste solo nel veder messa a repentaglio la nostra vita, ma piuttosto nel fatto che è a rischio la vita stessa del pianeta che ci ospita, e di tutte le altre creature che, come noi, meritano e hanno dignità di vivere, di provare emozioni e sentimenti, di godere della libertà.

Il cambiamento, il vero cambiamento, può diventare una realtà in strada, nei boschi, nel mare e nella vita di ognun* di noi solo distruggendo l’antropocentrismo.

Quando la terra grida vendetta, tocca a noi prendere le armi.

(1) http://www.ansa.it/liguria/notizie/2016/04/18/sversamento-greggio-in-torrenti-genova_392de867-7bd3-465c-8a7e-9ebd583a17ae.html
(2) http://www.today.it/cronaca/cogoleto-arenzano-bonifiche-legambiente.html
(3) http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/07/05/un-onda-nera-investe-il-ponente.html